Madonna della Nova

Madonna della Nova
Chiesa
Via S. Giovanni Bosco
Ostuni
Ostuni
71017
Puglia
Italia

La chiesa, sviluppatasi su un complesso in grotta interessato da presenze monastiche di rito greco, si trova lungo le pendici scoscese della lama omonima. Un tempo chiesetta rurale nei pressi della via consolare borbonica, fuori dall’abitato di Ostuni, in direzione di Carovigno, ora è quasi inglobata nel tessuto abitativo della periferia. Vi si accede dalla statale tramite una ripida scalinata, introduzione a un terrazzo che fa da sagrato, rimaneggiata in epoca recente, addossata alla fiancata ovest dell’edificio sacro.
Nella prima domenica dopo Pasqua, intenso è il pellegrinaggio verso la chiesa. Come tradizione vuole, i devoti si portano qui per assistere alle funzioni religiose delle ore 7.30, 9 e 11; dopo il rito i fedeli consumano la Palomma, dolce pasquale fatto di pasta a forma di colomba con incastonate una o più uova sode.
L’impaginato della facciata, che si apre, lateralmente, in due monofore e, centralmente, in un portale ogivale su cui, in asse, sono il rosone e una monofora, con coronamento formato da una teoria di archetti trilobati su cui svetta un agile campanile a vela a due fornici, non ha subito alcuna alterazione lungo i suoi cinquecento anni di storia. All’interno la chiesa, con orientamento NO-SE, ha pianta rettangolare e soffitto a volta ogivale. Le pareti laterali, in origine interamente affrescate, sono in parte scavate nella roccia, in parte costituite da muratura in elevazione composta di conci di calcarenite di disomogenea sedimentazione. Nella parete opposta all’ingresso, ai lati di un altare barocco, trovano ubicazione due porte che permettono l’accesso all’ipogeo mediante una zona di disimpegno. Qui inizia una grotta di origine carsica, lunga una ventina di metri, per circa 3 m. di altezza e larghezza; più larga all’imboccatura e rastremata al fondo; di orientamento omogeneo all’edificio antistante ex divo. Nel XVIII secolo sono stati aggiunti due corpi di fabbrica a piano terra e a primo piano, antistanti l’ambiente a piano rialzato già eretto contestualmente alla chiesa.
Cosimo De Giorgi ne La Provincia di Lecce, edita il 1882, fornisce una prima dettagliata illustrazione del complesso in grotta rilevando, a proposito della chiesa cinquecentesca che “il nuovo ed il barocco nell’interno hanno totalmente sostituito l’antico”:

“Dietro l’altare si apre però una grotta naturale, lunga m.38,80, larga da m.2,60 a 3,80 ed alta da due a tre metri. Il pavimento è tutto interrato dall’ocra argillosa che riveste le colline ostunesi; la volta è di forma triangolare, solo in parte ingrandita a colpi di piccone. La acque calcarifere gocciolando da questa volta sul pavimento e sulle pareti ne hanno arrotondato gli spigoli sporgenti, e vi hanno disteso dei piccoli festoni stalattitici. Nei secoli scorsi le pareti di questa grotta erano qua e là dipinte a fresco; ma oggi ne restano appena le tracce. Uno degli affreschi meglio conservati rappresenta Gesù Cristo in atto di benedire, colla Vergine a dritta e S. Gio. Battista a sinistra. Il redentore colla sinistra regge il libro degli evangelii, sul quale si legge la seguente iscrizione: EGO SUM LUX MUNDI QUI SEQUITUR ME NON AMBULAT IN TENEBRIS. Un altro affresco rappresenta un Crocefisso, con due figure ai lati molto sciupate. In un terzo si vede l’effigie della Vergine; figura di grandi proporzioni, ma di fattura molto grossolana come le precedenti. A qual epoca rimontano questi affreschi? Vi è relazione di somiglianza e di data fra questi e quelli delle grotte di S. Maria di Agnano e della tante disseminate nel Tarentino e verso il Capo di Leuca?”

La chiesa della Madonna della Nova, tra i pochi manufatti goticheggianti scampati alle ingiurie del tempo, è la più antica dedicata alla Vergine tra quelle ancora oggi esistenti in Ostuni. In essa si svolgevano le sette feste in onore di Maria oltre quella della Domenica in Albis: in questo luogo la chiesa locale veniva a salutare la madre di Dio col titolo di Theotokos. Negli atti di santa visita del 1876 si scrive:

“La festa di questa Madonna si celebra nella domenica in Albis; e da parecchi anni in que un pio gruppo di devoti ha cura di rilevare questa Santa Vergine dalla sua campestre dimora e trasportarla nella chiesa dell’Immacolata sita nella piazza nobile di Ostuni, ove celebrata la novena e la festa dopo la processione cittadina seguita da banda musicale, viene restituita nella sua propria cappella”.

Fu costruita, con richiamo all’aulico modello costituito dalla Cattedrale, ai primi del XVI secolo a iniziativa e spese del capomastro Giovanni Lombardo; la chiesa si completò dopo il 1521, anno in cui non è menzionata nell’inventario dei beni della mensa vescovile di Ostuni, e prima del 16 aprile 1524, data riportata sull’affresco avente a soggetto una processione di flagellanti. Fu cappellania laicale con annesso beneficio goduto, il 1558, dal canonico Pasquale de Pia; estintasi la famiglia con diritto di patronato, la chiesa passerà sotto la diretta custodia dei vescovi di Ostuni. Delle linee e decorazioni seicentesche e settecentesche un tempo esistenti in chiesa, si scorge al presente soltanto l’altare in pietra gentile, di gusto rococò, fatto eseguire nel 1761 dal cappellano Antonio Taberini. Nello stesso periodo il vescovo Francesco Antonio Scoppa (1747-82) fece erigere nella grotta, innanzi l’affresco della Nikopeia, un altare contenente il suo stemma, spostato nel 2003, per il restauro dello stesso affresco, sulla parete interposta ai due accessi. L’intrapresa dello Scoppa era sostitutiva del medievale ciborio o baldacchino in pietra realizzato dal capomastro Maraldo, come riportato da un’epigrafe greca incisa su una delle tegole pertinenti al complesso. È comunque da ritenere che tutto l’interno della vetusta chiesa fosse stato rivisitato durante il Settecento e ricoperto di stilemi più in sintonia coi gusti di quel tempo.

Sul lato sinistro del vestibolo, che precede la lunga galleria della grotta, si conservano due dipinti: il primo raffigura una Processione di flagellanti datata al 1524, forse riferibile a committenza della nobile famiglia Palmieri; l’altro Ia Madonna che allatta il Bambino, versione cinquecentesca della bizantina Galaktotrophousa, soggetto presente nella pittura medioevale della regione.
Lo schema iconografico mariano di stampo bizantino persiste nella posizione della Madonna, ritratta a mezza figura, mentre sostiene tra le braccia il Bambino, che sugge da una mammella posta in un’improbabile area anatomica. Il desiderio del pittore di prendere le distanze dal linguaggio bizantino si coglie nell’ampio modellato delle due figure e nello sviluppo plastico conferito al maphorion, animato da numerose pieghe chiaroscurate ma poco coerente nel suggerire il movimento delle braccia.

Sulla parete sinistra della grotta, su una nicchia sovrastante un altare, è la Madonna Nikopeia, Colei che conduce alla vittoria, raffigurata secondo la diffusa iconografia bizantina, desunta dall’immagine-stendardo che guidava in battaglia gli eserciti imperiali. La parte superiore del dipinto è venuta alla luce nel corso della campagna di restauro condotta da Jolanda Mayer nel 1997. L’altra metà è stata liberata durante la successiva fase d’interventi conservativi, realizzati nel 2003 dalla restauratrice milanese Paola Centurini. La Madonna, assisa in trono e con un’aureola perlinata, indossa un maphorion azzurro, che dalla testa discende fino ai piedi. Il Bambino benedice alla greca con la destra e sostiene con la sinistra il volumen; è adagiato sulle ginocchia della Madre, che lo trattiene amorevolmente.

La più antica testimonianza pittorica della grotta riguarda una Croce, che emerge al di sotto di un strato pittorico raffigurante una santa non più identificabile. Questo simbolo cristologico, mostra bracci con nodi rimarcati da perle debolmente ombreggiate, terminazioni trilobate e appendici vegetali che si snodano dalla base. Tali decorazioni naturalistiche inducono a identificare questo tipo di Croce con l’Albero della Vita motivo allusivo di Cristo, diffuso in età paleocristiana e, successivamente, in quella bizantina, ovvero in un segno di consacrazione del luogo di culto. La lavorazione raffinata della Croce, sicuramente mutuata da prodotti di oreficeria, fa ritenere plausibile una sua datazione alla seconda metà del XIII secolo. A breve distanza di tempo la Croce fu occultata da un nuovo rivestimento pittorico con le immagini di due sante, dipinte da un medesimo artefice. Entrambe le figure sono accompagnate da iscrizioni esegetiche, purtroppo poco leggibili. I dipinti della Madonna della Nova sono molto deteriorati e, soprattutto, poco caratterizzati ai fini di un bilancio stilistico; sono stati trattati sommariamente dal De Giorgi e dalla Medea, i quali ne hanno segnalato solo il pessimo stato di conservazione.

Il Cristo alla colonna, in riquadro rosso con fondo blu e giallo, soggetto del tutto sconosciuto nel repertorio figurativo delle chiese rupestri pugliesi pare piuttosto tardo. La Diesis, con il Pantocratore al centro e ai lati la Vergine e San Giovanni Battista, pare databile ai primi del XIV secolo.

Il dipinto più distante dall’ingresso della grotta di Santa Maria della Nova è una Crocifissione, proposta a una notevole altezza dal piano di calpestio. Il Cristo emerge con forte drammaticità, occupando per intero il fondale rosso e annullando quasi il supporto ligneo, che si scorge appena al di dietro delle braccia, sconfinando oltre i limiti della campitura. Affiancano il Cristo, ritto nella parte superiore del corpo ben modellato, la Madonna, che addita con le braccia sollevate il Figlio, e san Giovanni evangelista con le mani giunte in preghiera. Fattori di sicuro impatto emotivo concorrono ad accentuare l’intenso pathos dell’evento: il formato dei chiodi, quasi picchetti infissi nelle mani; lo stillicidio delle ferite inferte sul corpo del giustiziato; uno zampillo di sangue, che sgorga dalla ferita sul costato. A tutto ciò si aggiunge l’espressione dolente degli astanti, caratterizzati da fisionomie acute e contratte, abbreviati nella definizione plastica dell’abbigliamento, affidata a pochi tratti lineari.

Sulla parete sinistra della chiesa di Santa Maria della Nova si sussegue una serie di affreschi, i primi due dei quali sono emersi durante i lavori di restauro condotti nel 2003. II primo soggetto, estremamente lacunoso, rappresenta un Santo francescano individuabile dal saio color grigio. Accostato a tale riquadro, sullo stesso strato pittorico, appare una Madonna con Bambino, dipinto deturpato dalla perdita di ampi brani e dei volti delle due figure. Quanto rimane è sufficiente per formulare alcune considerazioni sull’originale fattura del soggetto. Le figure sono inserite in un’elaborata struttura dal profilo interno trapezoidale, che simula una intelaiatura lignea, interrotta lungo i lati da riquadri incassati e, in alto, da borchie tondeggianti. Qualcosa di simile si può osservare nelle incorniciature dei pannelli con figure di vescovi e in alcuni apparati scenografici che ospitano storie del Ciclo mariologico, nella Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, decorata nella prima metà del XV secolo.

Il dipinto successivo, emerso durante i lavori di restauro condotti nel 1997, rappresenta Santa Maria della Nova, identificata dall’iscrizione a lettere capitali ai lati dell’aureola. Il quadro è delimitato da una profonda cornice azzurrata, illuminata nel bordino interno, come se fosse colpita dalla luce proveniente dal portale della chiesa. Assisa su un trono marmoreo privo di schienale, la Madonna si uniforma, per posizione e per abbigliamento, al similare repertorio figurativo delle tarde icone bizantineggianti. Una ciocca di capelli, che ricade in una serie di riccioli ai lati del viso, è l’unica concessione a un atteggiamento austero e quasi severo del volto. Il Bambino, tutto proteso a carpire un oggetto non identificabile, forse una rosa, è più spontaneo e vivace; la corta e aderente tunichetta, pur conservando la memoria di decorativismi tipicamente tardo-gotici, lascia, infatti, intuire il robusto modellato del corpicino, liberamente mosso nello spazio. L’affresco fu commissionato da Lucrezia della nobile famiglia Zaccaria.

La figura di San Bernardino da Siena (1380-1444) giganteggia in un pannello verticale, sviluppato sul lato sinistro della porta che introduce nella dimora del romito. Il ductus, semplice e modesto dell’ignoto pittore si evince non solo nei rapporti sbilanciati del busto con la parte inferiore del corpo ma, anche, nei panneggi del saio, riuniti in gruppi di tre pieghe. Il volto, asciutto e allungato, è percorso da innumerevoli rughe, pin sottili sulla fronte e intorno agli occhi, profondamente marcate intorno al mento e alle labbra; maggiore naturalezza rivela il trattamento dei cappelli, raccolti dietro alle orecchie in ciocche canute, abilmente tratteggiate. Tali cifre stilistiche si riscontrano in quella cerchia di artisti che, nel cantiere galatinese di Santa Caterina d’Alessandria, si è espressa con una forte accentuazione fisionomica, quasi caricaturale delle figure anche se è difficile proporre dei confronti convincenti.

Tra la porta d’accesso alla casa del romito e a quella che immette nella grotta dal lato sinistro è un’immagine di San Giovanni Battista; sulla parete destra della chiesa sono infine pitture parietali, verosimilmente cinquecentesche, riferibili a una Madonna con Bambino, a una Processione di flagellanti e a un’Imago Pietatis.
All’interno della chiesa, in una nicchia sopra l’altar maggiore, è la statua in pietra, cinquecentesca, della Madonna con Bambino, recentemente restaurata; ottocentesca è quella, lignea, d’analogo soggetto.