Messaggio di S.E. Mons. Giovanni Intini, Arcivescovo di Brindisi - Ostuni in occasione della S. Pasqua 2024

«EGLI VI PRECEDE»

Invertire la rotta: dal sepolcro alla Galilea

Carissimi Fratelli e Sorelle,
Come nel cuore delle donne che di buon mattino, il primo giorno della settimana, andavano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù, così anche nei nostri cuori risuona la domanda: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?» (Mc 16, 3).
Questa domanda sembra particolarmente attuale in questo nostro tempo, in cui tanti sepolcri della nostra vita personale, comunitaria e sociale sembrano ermeticamente chiusi ad ogni possibile spiraglio di vita e di novità.
Questa domanda risuonava con una certa angoscia nel cuore delle donne il mattino di Pasqua, perché erano consapevoli che con le loro forze non avrebbero mai potuto rotolare via la pietra che chiudeva il sepolcro di Gesù e forse facevano appello alla loro creatività per trovare un modo per farlo. C’era in loro la forte volontà di compiere il gesto pietoso dell’unzione del corpo senza vita del Maestro, glielo dovevano, considerato tutto quello che Lui aveva fatto per loro quando era in vita.
Nella vita di queste donne si intrecciano angoscia e desiderio, ed è proprio l’affetto che nutrono per Gesù, se pur morto, che consente loro di valicare i confini dell’angoscia per aprirsi agli orizzonti di una possibile speranza.
Noi credenti, che portiamo nel cuore la stessa angosciante domanda, abbiamo anche lo stesso ardente desiderio, nutrito dall’affetto per Cristo e orientato alla speranza?
Sarebbe veramente triste se noi non ci ponessimo più nemmeno la domanda: Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?
Purtroppo, non è una situazione così remota, dal momento che c’è tanto disincanto, delusione e rassegnazione nelle persone del nostro tempo; c’è tanta poca voglia di guardare in faccia le grandi domande della vita, di prendere a cuore le dolorose vicende della storia del mondo, di farsi carico delle sofferenze di tanti fratelli e sorelle, di curare le ferite del Lazzaro della porta accanto, di provare a rifare il tessuto dello spirito comunitario che si è pericolosamente indebolito.
C’è tanta poca voglia di rimuovere la pietra dall’ingresso dei tanti sepolcri della vita quotidiana che sono diventati dei veri e propri rifugi privati, per provare a costruirsi paradisi dorati, per difendersi dalla realtà e accontentarsi delle piccole e veloci gioie del momento.
A una visione di vita antropologicamente chiara, cristianamente fondata e umanamente solida, preferiamo sempre più il ben più comodo “carpe diem” e il malinconico “chi vuol esser lieto sia: di doman non c’è certezza” (Lorenzo dé Medici).
Mentre le donne del Vangelo, il mattino di Pasqua non si sono arrese all’angoscia e all’apparente impossibilità di risolvere la situazione, noi, oggi corriamo il rischio di rinunciare in partenza ad ogni sforzo di liberazione e di rinascita, per accontentarci del grigio individualismo che sembra tutelarci da ogni rischio.
Nel racconto evangelico, San Marco dice che le donne: «Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande». (Mc 16, 4). Nella fretta di arrivare al sepolcro e appesantite dalla preoccupazione di non poter togliere la pietra dal sepolcro, le donne camminavano con lo sguardo basso, ripiegate su sé stesse.
In realtà, quello sguardo basso era il risultato della forte delusione che avevano vissuto per la morte del Maestro, anche loro, come gli apostoli e i due di Emmaus, vivevano l’ora di un grande fallimento; perciò, pensavano di trovare consolazione almeno nel gesto pietoso di ungere un morto, ma tra loro e quel gesto d’amore c’era una grossa pietra da far rotolare.
Quando anche noi attraversiamo la storia con lo sguardo verso il basso, ripiegati su noi stessi e sulle nostre delusioni, frustrazioni, fallimenti, non possiamo fare altro che accontentarci di qualche piccolo, pio gesto che almeno ci da l’illusione di non affondare.
Per fortuna le donne alzarono lo sguardo, non fecero solo un gesto fisico, ma avvenne un vero e proprio cambio di prospettiva; è il tentativo di andare oltre sé stessi e i propri fallimenti per cercare un orizzonte nuovo.
Più volte, Gesù, soprattutto nel Vangelo di Giovanni, richiama la necessità che Lui sia innalzato: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede il lui abbia la vita eterna» (Gv 3, 14-15); e alla vigilia della sua morte ribadisce: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32); e infine, lo stesso San Giovanni, autore del Vangelo, commenta così la morte di Gesù: «E un altro passo della Scrittura dice ancora: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”» (Gv 19, 37).
Lo stesso evangelista Giovanni in apertura del Libro dell’Apocalisse, introducendo con ritmo liturgico la sua esperienza di fede, scrive: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Si, Amen!» (Ap 1, 7).
Dunque, è Gesù stesso che invita ad alzare lo sguardo per contemplare il Crocifisso Risorto e ritrovare così la direzione giusta nel cammino della vita.
Nella celebrazione annuale della Pasqua, il Signore ci invita ad alzare lo sguardo, perché la domanda che portiamo nel cuore: “Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?” si incontri con la risposta: “Alzando lo sguardo…”; è così che ci si accorge che la tomba è già stata aperta dalla forza generativa del Vivente.
Se continuiamo a camminare verso le tombe chiuse della rassegnazione, frustrati dal pensiero di doverci accontentare degli scampoli di piccole gioie di giornata perché non riusciremo a rotolare la pietra che sigilla le nostre tombe, allora non avremo una visione ampia della vita fondata sulle solide basi della fede, della carità e della speranza.
Se alziamo lo sguardo, invece, ci accorgiamo che la pietra è stata già rotolata via e il sepolcro è aperto, perché non ha più la capacità di contenere la vita e allora inizia la ricerca del Risorto, presente nei cambiamenti della storia, nell’evoluzione della società. «Dobbiamo cercarlo in base alla sua voce come Maria Maddalena; cercarlo negli stranieri in viaggio come i suoi discepoli sulla strada di Emmaus; cercarlo nelle ferite del mondo come l’apostolo Tommaso; cercarlo ovunque entri attraverso le porte chiuse dalla paura; cercarlo ovunque porti il dono del perdono e di un nuovo inizio». (Tomàš Halìk).
È tempo di alzare lo sguardo e lasciarsi orientare dalla voce dello Spirito Santo: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui…Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”». (Mc 16, 6-7).
Occorre convertire la rotta: dal sepolcro alla Galilea! Non è verso il sepolcro che dobbiamo camminare, per rassegnarci alla morte e imbalsamare le speranze naufragate con la morte del Maestro e poi vivere di nostalgia, pensando ai bei tempi in cui, con Lui, si percorrevano le strade della Palestina sognando un futuro di gloria alla maniera dei potenti della terra.
Oggi, come Chiesa corriamo seriamente il rischio di rassegnarci al declino della religione, imbalsamando quanto sta morendo e mantenendo in piedi vecchie nostalgie, che noi continuiamo a diffondere come un vecchio giradischi che ripete la stessa canzone, ormai stonata perché ripetuta infinite volte.
Alziamo lo sguardo e capiremo che lo Spirito ci spinge in Galilea, al luogo dell’appuntamento col Risorto; ci indica, cioè, strade nuove per nuovi incontri e nuovi cammini di speranza.
Quella che sta morendo è solo una religione che ha fatto il suo tempo e non riesce più ad esprimere la vitalità generativa della fede; non sta morendo la fede! Non sta morendo la Chiesa, ma solo un certo modo di vivere la fede e un certo modo di essere Chiesa, ma il Cristo è risorto e continua a darci appuntamento in Galilea.
«Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43, 19); la fatica, l’affanno, l’incertezza del tempo che viviamo perché non leggerla come il travaglio della gestazione di un tempo nuovo che il Signore sta pensando per noi, sua Chiesa?
Non abbiate paura! L’invito dell’angelo alle donne, il mattino di Pasqua, è l’invito rivolto a noi, oggi, in questo cambiamento d’epoca. Il testo del racconto dell’Evangelista Marco descrive l’angelo della Pasqua come «un giovane seduto sulla destra, vestito d’ una veste bianca…» (Mc 16, 5), nel linguaggio biblico è il modo per dire che l’invito viene da Dio e l’angelo stesso si pone come aiuto per comprendere il messaggio di Dio.
L’identificazione dell’angelo con un giovane, ci offre la possibilità di cogliere un dato interessante: chi aiuta le donne a leggere il senso dell’evento pasquale, scritto nella tomba vuota, è proprio un giovane. Oggi assistiamo spesso, e con angoscia, a segnali inquietanti che provengono dall’universo giovanile, segno del grande disagio che i giovani vivono e della enorme responsabilità che noi adulti abbiamo nell’aver loro negato punti di riferimento significativi.
Tuttavia, le ombre dei vissuti giovanili non devono offuscare l’enorme potenzialità che i giovani possono esprimere nella Chiesa e nella società; perciò Papa Francesco, nella Esortazione Apostolica Postsinodale Christus Vivit, indica due grandi direttrici che devono ispirare la pastorale giovanile: la ricerca, l’invito, la chiamata che attiri nuovi giovani verso l’esperienza del Signore, e la crescita, lo sviluppo di un percorso di maturazione di chi ha già vissuto l’esperienza dell’incontro. (cfr ChV, 209-215).
Le nostre comunità parrocchiali dovrebbero diventare spazio accogliente per i giovani, perché possano fare percorsi di amore gratuito e promozione umana, di crescita e sano protagonismo. Infatti «Molti giovani oggi si sentono figli del fallimento, perché i sogni dei loro genitori e dei loro nonni sono bruciati sul rogo dell’ingiustizia, della violenza sociale, del si salvi chi può. Quanto sradicamento! Se i giovani sono cresciuti in un mondo di ceneri, non è facile per loro sostenere il fuoco di grandi desideri e progetti. Se sono cresciuti in un deserto vuoto di significato, come potranno aver voglia di sacrificarsi per seminare?» (ChV 216). Dunque, hanno bisogno di spazi accoglienti, fraterni, dove “fare casa”, dove sperimentare il gusto di essere famiglia e imparare a sentirsi uniti, al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, per maturare umanamente, vocazionalmente e cristianamente.
Questi giovani, accompagnati a vivere una esperienza generativa, saranno per noi angeli della resurrezione, annunciatori di nuova speranza, perché capaci di cogliere con il loro fiuto giovanile i primi bagliori di un nuovo mondo che sorge all’orizzonte della storia.
Il racconto dell’Evangelista Marco si conclude quasi con un velo di tristezza, perché le donne ascoltato l’invito dell’angelo sono colte da spavento e stupore, «e non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite». (Mc 16, 8).
Si può per paura nascondere la parola della resurrezione? Si può aver paura di annunciare la novità di Dio che sorge dal sepolcro per paura di staccarsi dalle certezze del passato?
Certamente no, come Chiesa dobbiamo scegliere la franchezza evangelica degli apostoli Pietro e Giovanni davanti al sinedrio che intimava loro di non parlare più di Cristo risorto: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». (At 4, 19-20).
Si, noi non possiamo tacere, dobbiamo credere che annunciare e testimoniare la risurrezione di Cristo, oggi, per noi, credenti di questa stagione storica, significa lavorare per rinnovare il volto della Chiesa, secondo quanto lo Spirito Santo ci sta dicendo, perché questo annuncio risulti credibile. E allora, mentre sorge l’alba di una nuova epoca, mettiamoci in cammino non in direzione sepolcro, per imbalsamare un morto, ma in direzione Galilea, per rinnovare l’annuncio: Cristo è risorto! Il Cristo risorto desidera una Chiesa risorta, dinamica, sacramento di Cristo, segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (Cfr LG 1).
Termino, perciò, facendo mio l’auspicio che don Primo Mazzolari rivolgeva ai suoi fedeli: «Così, purtroppo, è la nostra Pasqua: un omaggio di pietà, come se il Cristo, in questo momento, avesse bisogno della nostra piccola pietà. I morti hanno bisogno di pietà: il vivente di audacia. “Non vi spaventate”, parlano gli angeli. “Voi cercate Gesù. Non è qui. Ecco il luogo dove l’avevan posto”.
Il passato, le civiltà, le colture, le nostre stesse basiliche, le nostre stesse più care tradizioni possono essere luoghi ove l’avevano posto gli uomini di un’epoca. “Andate a dire ai discepoli e a Pietro, ch’egli vi precede…” Dove? Dappertutto. In Galilea e sul monte: nel Cenacolo e lungo la strada di Emmaus: sul mare e nei deserti, ovunque l’uomo pianta la sua tenda, spezza il suo pane, costruisce le sue città, piangendo e cantando, sospirando e imprecando. “Egli vi precede”. Ecco la consegna della Pasqua. Se alzandoci dalla tavola eucaristica avremo l’animo disposto a seguirlo ovunque, ovunque lo vedremo, com’egli ha detto».
Auguro a tutti, alla nostra Chiesa diocesana, a chiunque si pone in ascolto della voce dello Spirito, di incontrare ovunque il Crocifisso Risorto, di riconoscerlo nella Parola che fa ardere il cuore, nel Pane spezzato e di ripartire in fretta sulla strada veloce dell’annuncio, per gustare la gioia del vangelo e vivere lo spirito della missione.

 

Messaggio Pasquale 2024